di Manuela Campitelli
“Il dramma dei padri separati”, “A causare la tragedia la difficile separazione tra il padre e la madre”, “Padre uccide i due figli, era sconvolto dalla separazione”
Un uomo ieri ha ucciso i due figli gemelli di 12 anni strangolandoli, poi ha scritto un messaggio all’ex moglie “non li rivedrai mai più” e si è tolto la vita. Questi i fatti, che non lascino nulla all’interpretazione: lui, il padre, è un assassino figlicida, i bambini sono le vittime, la madre anche, perchè lui ha voluto punirla togliendole per sempre l’amore più grande.
Eppure per molti giornali non è stato così, almeno nella narrazione. Dal Mattino all’Ansa, dal Corriere Adriatico al Corriere della Sera, il modo in cui la notizia è stata raccontata e titolata è figlia di una narrazione tossica, misogina e sciatta che non solo non restituisce giustizia a chi non c’è più ma si rende complice di un capovolgimento di responsabilità: facendo apparire il carnefice la vittima e la vittima la responsabile. Il carnefice, in questo caso il padre, viene descritto come l’uomo esasperato da una separazione difficile, per di più vittima sui social di insulti e discorsi dell’odio ritenuti – nel pezzo del Mattino – “di una violenza verbale inaudita” mentre la vittima, ovvero la madre, è descritta come la co-responsabile nonché causa della sua disperazione, talmente esasperante da portarlo al gesto.
Titoli e definizioni abominevoli (in primis il post di lancio del Mattino che fa riferimento al “dramma dei padri separati”, rimasto sulla timeline per ore e poi rimosso) che mettono il padre e la madre sullo stesso piano e portano a quel processo di “vittimizzazione secondaria” per cui la persona offesa (offesa è dire poco) è vittima due volte: nella vita privata ma non solo, sui giornali, sui social e quindi nell’opinione pubblica.
Lui, il padre, è un assassino. Non ci sono parole per descriverlo né per raccontarlo. Non ci sono “motivazioni all’origine del gesto” né cause da ricercare. L’unica causa si chiama possesso e fa parte di una cultura patriarcale contro cui ci scontriamo in continuazione, ogni qual volta leggiamo sui giornali di un femminicidio. Ricordo ancora quel “Gigante buono” riferito all’assassino di Elisa Pomerelli “che ha vegliato il corpo della ragazza per due giorni e due notti” quasi a richiamare una veglia funebre per una persona amata.
In questa narrazione permeata dai pregiudizi la voce delle vittime si perde e resta quella del carnefice per cui – nonostante il gesto inaudito – vengono ricercate delle motivazioni. E invece non ci sono cause da trovare se non nel possesso, nella cultura patriarcale di cui con tutta evidenza siamo pregni, anche noi giornalisti quando non riusciamo a dare il nome alle cose: quello di un assassino che strangola i figli per vendicarsi sulla madre.
E’ un femminicidio indiretto, così dovremmo chiamarlo.
Il Manifesto di Venezia parla chiaro e non solo invita i colleghi a nominare le cose con il loro nome e a utilizzare la parola femminicidio per l’omicidio di una donna in quanto tale ma raccomanda anche di evitare ogni commento che suoni come un’attenuante.
I pregiudizi di genere, che permeano le nostre redazioni, sono difficili da scardinare e non c’è manifesto né corso di deontolgia che tenga se non cambia la mentalità di molti colleghi che nella ricerca di una giustificazione all’orrore, banalizzano un episodio che non è solo cronaca ma ha una radice culturale profonda nell’atavica prevaricazione maschile sulle donne.