di Michele Mezza – docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli
La pandemia è stata lente d’ingrandimento ed ha messo in modo un domino che ancora non si è stabilizzato nel sistema mediatico. Proprio nel pieno della fase più acuta del contagio, nella primavera del 2020, abbiamo registrato sommovimenti che hanno ridisegnato una parte consistente del mosaico giornalistico.
Gedi come Ferrari? L’impronta de The Economist. Nella riorganizzazione del gruppo controllato dalla famiglia Agnelli
La Repubblica ha cambiato proprietà e direzione giornalistica, passando saldamente nelle mani del gruppo Fiat diretto da John Elkan, capo del ramo cadetto della galassia Agnelli. Il nuovo corso aveva annunciato napoleonici programmi per la conglomerata Gedi, che controlla oltre al quotidiano romano anche La Stampa di Torino, Il Secolo XIX di Genova, il settimanale L’Espresso, e tredici quotidiani locali, unitamente ai network radiofonici di Radio Capital e Radio Dee Jay, nonché l’intera proprietà della versione italiana de The Huffington Post dopo aver acquistato nel giugno 2021 la quota del 51 per cento delle azioni detenuta da BuzzFeed divenuto nel novembre 2020 proprietario della case madre statunitense
Le scosse di assestamento del terremoto proprietario hanno investito tutto l’impero, mutando conduzione e linea editoriale di tutte le singole testate. L’editoriale del nuovo direttore de La Repubblica Maurizio Molinari del 25 aprile 2020 era un vero manifesto ideologico: un giornale di persuasione e interferenza politica che diventa più tecnocratico al suo interno, con una digitalizzazione estesa, per un paese più tecnocratico al suo vertice, quasi anticipando l’avvento a Palazzo Chigi di Mario Draghi. Un programma che sembrava dettato dalla vera portaerei del gruppo ovvero il settimanale britannico di attualità economica e finanziaria The Economist, di cui la Exor della famiglia Agnelli presieduta da John Elkann è diventata nell’agosto 2015 azionista di riferimento con il 43,4 per cento delle azioni.
Questo legame fra il settimanale bussola dei ceti manageriali europei e la testata italiana avrebbe dovuto preludere ad una nuova stagione di espansione del gruppo Gedi. La realtà, al momento sembra invece deludere molto le aspettative, la Gedi, come la Ferrari, non alimenta speranze per il futuro. La tiratura delle testate principali è in avvitamento: La Repubblica nell’autunno 2021 ha venduto attorno alle 150 mila copie, quasi il 15 per cento in meno dell’anno precedente, un terzo di quanto vendeva sette anni fa, largamente staccato dal suo principale competitore, ossia Il Corriere della Sera. Non meglio se la passano a Torino dove la nuova e battagliera La Stampa diretta da Massimo Giannini ristagna sulle 100 mila copie, quasi l’8 per cento in meno del 2020. In affanno anche i primati digitali, che pure avevano sostenuto negli anni scorsi lo smalto delle testate Gedi. Eppure nella redazione guidata da Molinari le trasfusioni di energie e professionalità sono state massicce: decine di pre pensionamenti, con nomi illustri in uscita e l’entrata di figure del tutto inedite di giornalisti ingegneri o manager, come il nuovo vice direttore Francesco Guerrera il cui curriculum appare più affine ai collaboratori della finanziaria del gruppo più che della redazione
Il più promettente debutto di Umberto Cairo
Non meno enigmatico, anche se con un contesto decisamente più promettente il crinale su cui si trova l’altro gigante del mercato dei quotidiani: Il Corriere della Sera, con il suo debordante e irruente editore Urbano Cairo.
Gli ultimi prospetti trimestrali del gruppo Rizzoli Corriere della Sera (RCS) segnano, a pandemia ancora strisciante, un azzeramento dell’incombente debito, con una tendenza ormai consolidata ad avere margini operativi ampiamente positivi, e a macinare profitti sia nell’attività dei quotidiani – Il Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport– che di quello della televisione, appunto La 7.
Superando di slancio il buco nero del lockdown del 2020, siamo dinanzi ad un ricavo complessivo intorno a 840 milioni di euro, con una crescita di più di 135 milioni rispetto all’anno maledetto del 2020, e, nel capitolo delle attività finanziarie, si riscontra un rovesciamento del debito, che in alcuni momenti sembrava inestinguibile, in un seppur minimo ma confortante segno positivo con un utile di 1,6 milioni di euro.
Insomma tutto bene madama la marchesa.
Ma qual è il segreto e soprattutto qual è il messaggio che si ricava da questo scenario?
Siamo su un’isola misteriosa nel procelloso mare che sta sconquassando le testate in tutto il mondo? o dobbiamo celebrare i fasti di un intraprendente venditore di pubblicità che ha scosso il rassegnato settore editoriale del paese mostrando come si fa?
Sicuramente l’attivismo dell’allievo prediletto di Silvio Berlusconi, Urbano Cairo, che si trova a ripercorrere le orme del suo maestro nella capacità di risalire la corrente sul mercato, ha un peso che non possiamo ignorare. Ma dobbiamo anche ragionare sulle strategie e le formule che stanno emergendo da questo “miracolo”.
I numeri reali ci dicono che anche Il Corriere della Sera e La Gazzetta dello sport segnano in edicola una flessione progressiva: le due corazzate del gruppo vendono quotidianamente meno della metà di solo 6 anni fa: circa 200 mila copie il Corriere e poco più di 95 mila la testata rosea. Una caduta che avrebbe condotto i libri in tribunale se non fosse stata compensata da una manovra più ampia che ha rivalutato l’asset delle testate, ridotto i costi di gestione e di personale, aperto nuovi canali di entrate con i servizi in digitale.
Intanto i dati confortanti sulle diverse produzioni on line, dove si registrano tendenze lusinghiere, che potrebbero aprire scenari nuovi per l’intero settore dei quotidiani, annunciano una direzione inedita sul mercato italiano. Come ci informa la relazione semestrale del gruppo
“A fine giugno la customer base totale attiva per il Corriere della Sera (digital edition, membership e m-site) è risultata pari a 336 mila abbonamenti in crescita del 15 per cento rispetto al pari periodo 2020”.
Una base davvero consistente, almeno per il Corriere, mentre deduciamo dal silenzio della relazione che alla Gazzetta i risultati digitali sono meno inebrianti.
Comunque emerge qui un concetto che dovremmo meglio soppesare: la customer base. Si tratta di una visione che sostituisce l’esangue lettore, quella figura che andava all’edicola e offriva il suo fugace tempo di attenzione, investito nello sfogliare il quotidiano agli agenti commerciali del gruppo, che lo rivendevano agli inserzionisti. Oggi quella merce, l’attenzione del lettore, sembra del tutto svalutata, contesa e condivisa con un pulviscolo di altre tentazioni, che rendono la pubblicità della carta stampata solo un complemento di strategie più vaste e complesse che si realizzano in altri contesti, prevalentemente digitali.
Oggi una testata deve misurare la sua capacità di aggregazione di customer base, fidelizzandole a piattaforme e a modalità istantanee che coincidono con click più che con pagine stampate.
Più dettagliatamente la stessa relazione semestrale ci mostra il vero tesoro di famiglia del gruppo quando scrive che:
“I principali indicatori di performance digitali confermano la rilevante posizione di mercato di RCS, con i brand Corriere della Sera e La Gazzetta dello Sport che si attestano nel periodo gennaio-maggio 2021 rispettivamente a 30,3 milioni e a 17,4 milioni di utenti unici medi al mese e rispettivamente a 4,2 milioni e 2,7 milioni di utenti unici giornalieri medi al mese (Fonte: Audiweb 2.0)”
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Questi numeri oltre che confermare come sia stata azzeccata la strategia di digitalizzazione del pachiderma Corriere della Sera, e anche di come rimangano invece ancora incertezze e precarietà nella capacità di adattamento al nuovo mondo della Gazzetta dello Sport, evidenzia un tema da cui probabilmente dipenderà il futuro del gruppo editoriale e dell’intero settore dei quotidiani cartacei. Si tratta di capire come gestire questa moltitudine di clienti/utenti, parliamo come abbiamo visto di milioni di persone dalle più svariate e diverse motivazioni, che a differenza dei vecchi lettori di edicola, entrano nella piattaforma editoriale con lo stesso piglio e curiosità di quando visitano un market place tipo Amazon, cercando opportunità e servizi altamente personalizzati, esattamente profilati per il proprio fabbisogno.
E’ esattamente il problema che stava schiacciando i mostri sacri del giornalismo americano come The New York Times e The Washington Post, nei primi anni del nuovo millennio.
Nel 2006 un rantolante New York Times, ci racconta ancora Jill Abramson, si rivolse alla Mc Kinsey per capire proprio come sfruttare l’attenzione che raccoglieva in rete, dopo il fallimento del primo tentativo di offerta a pagamento della versione digitale. Il report della Mc Kinsey, che venne pagato, si favoleggia, più di un milione di dollari, raccomandava di differenziare l’offerta di prodotti e servizi, mettendo in catalogo una varietà di opzioni: dai viaggi all’editoria scolastica alle consulenze fiscali fino a oggetti di tendenza.
Li avvenne la svolta, scrive la Abramson che racconta come il mitico Arthur Ochs Sulzberger, erede della famiglia proprietaria del giornale, decise di travolgere ogni resistenza dei suoi giornalisti più prestigiosi costringendo la direzione redazionale a lavorare insieme all’apparato commerciale, cosa che negli Stati Uniti era considerato ancora un sacrilegio professionale.
Sulla stessa pista si mette anche il Washington Post che aveva già il vantaggio di un robustissimo settore di formazione scolastica che sosteneva con i suoi ricchi introiti l’intero gruppo e guidava anche il processo di innovazione con le prime forme di insegnamento on line avviato fin dal 1998.
La ricetta della Mc Kinsey sembra essere stata copiata pari pari da Urbano Cairo.
Se vediamo i prospetti allegati alle comunicazioni sociali semestrali del gruppo ci accorgiamo che l’attività puramente editoriale, basata sulla versione cartacea e digitale dei due quotidiani è ormai sovrastata da un catalogo di offerte che abbracciano le attività più varie: dai viaggi guidati dagli inviati della redazione, all’editoria enogastronomica, alla formazione sino agli eventi. Ma vediamo come pure la stessa attività redazionale viene scomposta e re impaginata in formati commerciali, come le newsletter specializzate o le consulenze fiscali ed economiche, o ancora l’organizzazione di eventi che ormai calamitano la gran parte delle attività territoriali delle redazioni locali, a Milano come a Napoli o a Torino.
Una tendenza che da una parte rende centrale il market place, ossia la piattaforma digitale che commercializza i prodotti, ma dall’altra affida un ruolo protagonista proprio al capitale umano, alle redazioni che sono chiamate ad interpretare direttamente questa fase di diversificazione. Affiora qui la prima domanda: questa strategia che redazioni prevedono? quali competenze, che organizzazione, quali caratteristiche e missioni?
Insomma siamo ancora nell’ambito del contratto giornalistico o stiamo tracimando in una terra di nessuno in cui la redazione diventa un centro servizi omnicomprensivo?
La seconda domanda ci porta ai processi tecnologici.
Sia la digitalizzazione delle redazioni che le piattaforme commerciali sono sistemi che producono insieme al fatturato dati. Chi li controlla?
Al momento RCS si avvale di fornitori che assicurano competenze ed algoritmi: ma, procedendo lungo questo percorso, potrà ancora appaltare le intelligenze operative o non dovrà, come hanno scelto di fare i grandi quotidiani americani ed europei dotarsi di propri centri di ricerca e sviluppo?
La strategia del 5 per cento per la 7: il fatturato in un solo target e con due centri editoriali del gruppo rimasti (sinora) separati.
Infine arriviamo al nodo della 7.
Qui la strategia appare più precisa e stabile: il fatturato in un solo target, potremmo sintetizzare. La scelta è quella di attestarsi in un’economia audiovisiva del 5 per cento.
Ossia consolidare la propria nicchia generalista, incrociando il dato quantitativo, dimensionarsi appunto per audience attorno al 5 per cento, e qualitativa, una figura intermedia, da centri urbani prevalentemente del nord, da raccogliere con la concatenazione di format giornalistici, che scommettono sull’ingessamento di Rai e Mediaset, inevitabilmente più lenti con i propri galeoni ideologici a organizzare offerte di approfondimento, da contrattare con potentati interni ed esterni all’azienda.
Mentre la 7 sta giocando un ruolo corsaro, rappresentato dalle dirette di Enrico Mentana, che funge di fatto da direttore di canale, che vengono inventate all’impronta e incasellate nel mosaico che vede coperti sia i fronti più culturalmente impegnati con Corrado Formigli e Lilly Gruber, sia quelli con maggiori venature populiste con Massimo Giletti e il rotocalco di Giovanni Floris ormai diventato un Non è mai troppo tardi… dell’attualità.
Un palinsesto così congegnato è in grado di assicurare, con un costo di produzione bassissimo lo studio e gli ospiti a luce accesa, la prevedibilità di un’audience che si assesta su valori medi ormai acquisiti che vanno dal 4 al 7 per cento, con le relative tariffe pubblicitarie.
Anche in questo caso una domanda: ma proprio l’esperienza dei quotidiani ci dice che anche nell’universo televisivo siamo a un giro di valzer, dove le piattaforme streaming stanno mutando e scompigliando le platee di audience. Ovviamente sui piccoli numeri su cui lavora la 7 i riflessi sono meno incontrollabili, e le conseguenze meno clamorose, ma certo nei prossimi due anni si assisterà ad una diversificazione ancora più accentuata proprio nel target metropolitano maturo, a cui punta il palinsesto della 7.
Secondo nodo: ma fino a quando il gruppo Cairo potrà mantenere separati i due centri di attività giornalistica: fino a quando il Corriere della Sera e il TG de La 7 di Mentana potranno ignorarsi? Il supplemento del Corriere che si intitola non a caso 7, potrà non essere una rubrica digitale video? Insomma fino a quando non si dovrà integrare le due officine di contenuti? e quando accadrà quali effetti ci saranno editoriali e occupazionali?
Tanto più che sta salendo l’onda della politica, che fino ad ora aveva del tutto trascurato il gruppo come tale, considerando le singole testate come controparte.
Probabilmente Urbano Cairo dovrà dare una risposta a chi, come il suo ex padrino Silvio Berlusconi, gli tira la giacca. Dare ad ognuno un frammento di soddisfazione potrebbe non essere più sufficiente.