di Antonio Moscatello
La vicenda drammatica degli youtuber/tiktoker che avrebbero fatto una “challenge” – cioè una sfida – guidando per 50 ore (alternandosi) una Lamborghini e si sono schiantati contro un altro veicolo, in un incidente in cui è morto un bambino di cinque anni a Casal Palocco, merita una riflessione un po’ più approfondita della banale deprecazione contro l’eventuale incoscienza dei ragazzi (ma anche di un sistema che consente a un ragazzo di 20 anni di mettersi alla guida di una Lamborghini che va a 300 all’ora), se verranno appurate loro responsabilità.
Il punto è: cosa rischiano le piattaforme? Cioè, per essere chiari, da queste “sfide” a guadagnare sono loro. E sono i loro algoritmi a premiare questo tipo di esposizione. Il “successo” virtuale di questi ragazzi va a impattare sulla loro vita reale (e drammaticamente su quella di un bambino di cinque anni e di una famiglia distrutta), senza che chi innesca questi comportamenti si assuma qualsiasi responsabilità.
Il gruppo di ragazzi, a quanto leggo, aveva già postato “challenge” di questo tipo. E le piattaforme non sarebbero intervenute, per esempio, espellendoli. Quindi, in qualche modo, avrebbero favorito questo tipo di attività. D’altronde è noto che gli algoritmi favoriscono ogni tipo di post che crei viralità, in una cosa al tanto peggio tanto meglio che porta diritti all’inferno.
Ora, se chiedete a chi gestisce le piattaforme, vi risponderanno che entrando nella community si sottoscrive un codice di condotta e questo basta loro per lavarsene le mani. Sarà. Ma poi a chi è imputata la responsabilità di farle rispettare quelle regole e fi non far passare un messaggio: “Ragazzi, se fate qualcosa di brutto è solo colpa vostra, noi ve l’abbiamo detto che non si fa”. Perché altrimenti è troppo semplice, soprattutto per compagnie che guadagnano centinaia di miliardi di euro dalla gestione di questi spazi virtuali.