di Senza Bavaglio
La strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni: l’ultima bozza di riforma dell’accesso alla professione giornalistica, prodotta dalla maggioranza del Consiglio nazionale dell’Odg, ne è un esempio. Le buone intenzioni sono all’inizio: “far fronte ai cambiamenti che hanno interessato il giornalismo negli ultimi anni”. Da qui, si rende necessario – secondo gli estensori della bozza – un aggiornamento dei criteri interpretativi dell’art.34 della legge professionale relativi all’iscrizione al registro dei praticanti. E qui ci ritroviamo un papocchio, che tenta di riciclare, con qualche modifica, la riforma del praticantato partorita dalla stessa maggioranza, già bocciata dal ministero della Giustizia .
Leggiamo infatti che “I consigli regionali dell’Ordine procedono all’iscrizione al Registro dei praticanti a seguito dell’accertamento del lavoro giornalistico svolto”, a seguito di domanda di iscrizione presentata all’Ordine stesso, che “documenta la continuità dell’attività giornalistica, esercitata in maniera sistematica con particolare riferimento a a) produzione giornalistica, b) prova della retribuzione del lavoro, anche senza il vincolo della subordinazione, con la percezione di un reddito professionale indicativamente equiparabile al minimo tabellare lordo previsto per il praticante con meno di 12 mesi di servizio”. Un testo ambiguo e poco chiaro, a partire dal termine “attività giornalistica” quantomai generico: manca infatti una definizione precisa e univoca, ad esempio Attività svolta per una testata, cartacea o on line, con la presenza di un direttore responsabile ecc. Senza parlare del rischio concreto di possibili commistioni con pubblicità, marketing e simili.
Veniamo ora alle indicazioni per lo svolgimento del praticantato, su cui sarebbe l’Ordine regionale a svolgere l’attività di vigilanza, anche attraverso la designazione di un professionista con il ruolo di tutor, mentre la formazione deontologica del praticante sarebbe affidata a un corso di 36 ore a cura dei Consigli regionali e nazionale. A conclusione dei 18 mesi di praticantato, il presidente dell’Ordine regionale, acquisita la relazione finale del tutor e verificati i requisiti di “attività giornalistica”, rilascia la dichiarazione di compiuta pratica.
Quella che normalmente viene rilasciata dal direttore responsabile, a meno che non si tratti di praticantati d’ufficio: quelli sì, garantiti dall’Ordine, ma, appunto, si tratta di casi particolari e documentati. Qui, invece, si sceglie ancora una volta una strada ambigua, che non garantisce uniformità di trattamento agli aspiranti giornalisti. Già ora infatti in materia disciplinare le decisioni sono difformi da un Ordine all’altro, pur in presenza di un codice deontologico preciso.
Un problema che inevitabilmente si riproporrebbe in caso di una gestione dell’accesso affidata esclusivamente al giudizio degli Ordini regionali.
Una riforma che vuole includere i nuovi giornalisti deve quindi prima di tutto riflettere su;
- Chi fa informazione oggi
- Per quali media/piattaforme lavorano ero collaborano i “nuovi giornalisti”
- Che tipo di inquadramento hanno
L’Ordine dovrebbe fare una ricerca approfondita per individuare queste caratteristiche inclusi i pagamenti che queste persone ricevono.
A questo punto e in base ai dati raccolti si può pensare ai meccanismi di accesso
In conclusione: il giornalismo è cambiato, e nessuno può negarlo. Ma modificare un dettaglio legislativo, come il praticantato, senza una strategia e una visione globale sulla nuova professione – cominciando, magari, dalla lotta al malcostume del lavoro gratuito – non ha senso. A meno che non sia un sistema per far cassa, facendo rientrare dalla finestra i cosiddetti comunicatori. Che però non hanno nessuna intenzione di entrare: né dalla finestra, né dalla porta.