di Michele Mezza – docente di Epidemiologia sociale dei dati e degli algoritmi, all’Università Federico II di Napoli
l take over di TIM, che il fondo statunitense KKR sta cercando di realizzare, con tutte le contorsioni e le opacità che si stanno verificando nella querelle apertasi attorno al destino dell’amministratore delegato Luigi Gubitosi, comporta radicali ripercussioni sul mercato della comunicazione nazionale e sullo stesso destino dei giornalisti italiani. Intanto per il comportamento dei giornali, in particolare i due principali quotidiani, che ci riporta a stagioni tenebrose del sistema informativo, con messaggi trasversali e colpi di mano sotterranei. Il Corriere della Sera e La Repubblica, dopo aver rampognato i social per la loro inaffidabilità, subito si sono arruolate in schieramenti contrapposti nella guerra che si è scatenata attorno ad uno degli snodi decisivi del potere comunicativo come è appunto TIM.
Una guerra combattuta in questa prima fase con metodi e obiettivi quanto mai lontani dalla trasparenza e la correttezza che la delicatezza della materia richiederebbe, con incursioni di interessi molto particolari, in alcuni casi persino di natura familiare. Un quadro che ci conferma come e perché le maglie del sistema giornalistico tradizionale siano state lacerate dall’esplosione dei social che hanno marginalizzato quella concentrazione di potere elitario e privatistico che solo fino a qualche anno fa ancora dominava la scena. Ma al di là degli aspetti di sotto potere legati a questa matassa, il vero elemento che dovrebbe essere al centro dell’attenzione del mondo dell’informazione è proprio il carattere prescrittivo e condizionante che l’epilogo di questa battaglia attorno al comando sul corpaccione malandato dell’ex monopolista sta prefigurando per il sistema comunicativo ed economico nazionale.
La Cia sarà al cuore del cloud in cui confluiranno i dati più sensibili dell’intera comunità nazionale?
In sostanza con la sua mossa KKR, il gruppo americano presieduto dall’ex capo della Cia generale David Petreus, si troverebbe incastonato al centro della strategia di sviluppo digitale del paese, architrave di un possibile piano di investimenti per la rete nazionale in fibra e, soprattutto, della realizzazione del delicatissimo Cloud unico della Pubblica Amministrazione, dove confluiranno i dati più sensibili e scabrosi dell’intera comunità italiana. Senza dimenticare il controllo della società Sparkle che gestisce le dorsali dati di maggior sensibilità in Europa, un vero orecchio globale.
Inoltre, per effetto di quel processo di evoluzione che sta rendendo Internet la madre di tutte le televisioni, chi avrà in mano il principale provider della connettività potrà condurre il gran ballo che si sta avviando sull’evoluzione e la trasformazione dei fornitori di contenuto – i cosiddetti content provider – audiovisivi, a cominciare dalla stessa RAI. Nonostante la perdurante incomunicabilità fra i fornitori di servizi di rete e i produttori di contenuti di informazione e intrattenimento multimediale, che ancora caratterizza il mercato del Bel Paese, siamo ormai alla vigilia di un cambio di pelle del sistema, sulla spinta dell’espansione delle piattaforme di videostreaming che ormai sono insediate in Italia, da Netflix, ad Amazon Prime sino a Dazn.
L’attacco a tenaglia che il gruppo francese Vivendi ha tentato sul fronte italiano, diventando il primo azionista di TIM e il secondo azionista di Mediaset, ci dice proprio che siamo entrati in questa stagione di ibridazioni di genere e di linguaggi multimediali, dove il modo di trasportare il segnale determina e riclassifica i sistemi utente, e la stessa semantica dei format editoriali. Una tendenza che si è accelerata con la pandemia, che ha condotto una frenetica transizione delle famiglie italiane nel mondo virtuale sia per i comportamenti quotidiani, dagli acquisti on line alla pianificazione di rapporti con la stessa pubblica amministrazione alla scuola in Didattica a Distanza (DAD), sia per la programmazione della propria dieta mediatica, o delle frequentazioni di spazi culturali e di intrattenimento, sempre più filtrate e gestite attraverso sistemi on line.
Cade così ogni residuo diaframma che ancora separava vita ordinaria e mondo della comunicazione, creando l’alibi di una partecipazione limitata alle forme di interconnessioni digitali che frenava i processi innovativi: si stanno unificando i linguaggi, le esperienze e le modalità della cittadinanza più usuale con le esperienze più avanzate e sperimentali, rendendo i centri di fornitura dei linguaggi e dei servizi parte essenziale della nostra esistenza.
Da Facebook a Metaverso. La virtualizzazione delle attività di condivisione attraverso i social
Il lancio da parte di un orizzonte quale quello di Metaverso, in sostanza il progressivo trasferimento in ambienti virtuali di attività oggi ancora condivise realmente, da parte di Facebook, seguito da flussi poderosi di investimenti in questa direzione, ci dice che le modalità di fruizione virtuale di servizi, contenuti ed emozioni sta diventando non solo un’opzione alla portata di larghe masse ma una necessità per sostenere e gestire la domanda di condivisione di queste esperienze da parte di moltitudini estese, attrezzate e ambiziose.
In questa direzione si sono ormai orientati i grandi editori internazionali, in particolar modo i giganti statunitensi guidati da The New York Times e The Washington Post, alla CNN, e a Buzzfeed. Il testo Mercanti di verità, la grande guerra dell’informazione scritto da Jill Abramson, la prima donna che è arrivata a dirigere il grande quotidiano edito a New York, non lascia spazio a incertezze né a discussioni.
Quanto si è ormai realizzato in quel paese sta contaminando i comportamenti già oggi in tutto l’Occidente. I quotidiani diventano piattaforme multimediali, dove video e social assicurano la fidelizzazione degli utenti, con il relativo flusso di big data indispensabile per far maturare gli algoritmi predittivi; i gruppi televisivi diventano centri di alimentazione di infiniti canali personalizzati, i grandi blog digitali si allungano sui target più sofisticati, individualizzando flussi di informazioni dedicate.
La chiave di questo processo è da una parte la disponibilità di infrastrutture di connessione che permettano di giungere al domicilio dei propri milioni di clienti con contenuti pesanti e ricchi; dall’altra, la piena autonomia nello sviluppo di algoritmi e memorie per automatizzare il processo di profilazione e personalizzazione della produzione rimanendo autonomi e sovrani rispetto alla morsa delle piattaforme che stanno monopolizzando lo scenario tecnologico.
Motore di questa mediamorfosi che muta radicalmente pelle e anima dei gruppi editoriale, è la capacità di integrare nella propria attività funzioni che possano sorreggere finanziariamente il lungo processo di riconversione. Così il New York Times è supportato da una pletora di servizi dedicati ad ogni singolo gruppo di utenti, dalle agenzie viaggio alle guide enogastronomiche, che producono gli utili per finanziare il giornale, mentre il Washington Post si regge su una potentissima piattaforma di formazione a distanza che guida anche le strategie tecnologiche del gruppo.
Non a caso abbiamo usato il neologismo mediamorfosi. Quanto sta accadendo sotto i nostri occhi è esattamente una mutazione genetica che separa l’attività editoriale del tradizionale lavoro artigiano sulle notizie, accorpando invece la produzione editoriale a tecnicalità e procedure che individualizzano ogni singolo utente, rendendolo destinatario di un flusso inesauribile di servizi in cambio di un flusso altrettanto poderoso di dati e di informazioni comportamentali. Questo scambio è la nuova economia politica dei media che ci permette di comprenderne la trasformazione e la composizione sia semantica sia tecnologica dei processi che li attraversano.
Il cuore di questa mediamorfosi, in cui i social network si distinguono dai media tradizionali, proponendosi come protesi della vita di ognuno di noi e non come semplici mediatori di informazioni, è l’accorciamento delle distanze fra gli individui, su scala globale. Meglio ancora, sulla base di ricerche accreditate, in questi anni abbiamo verificato un dimezzamento, come spiega Jill Abramson, delle fasi di separazione degli utenti fra loro. Per convergenza, oggi i media non hanno più come missione quella di promuovere consapevolezza mediante l’informazione, dando così forma a quel soggetto fondamentale della costruzione degli stati moderni che è l’opinione pubblica, ma di agevolare l’aggregazione di comunità operative e d’azione, che costituiscono il nuovo nerbo di quella costellazione istituzionale, basata sulla sintonia momentanea fra governanti e governati, che identifica la nuova entità statuale al tempo della rete. I media sono grafi dinamici e non più arbitri di accesso all’informazione.
Come dimostra l’esperienza di. Facebook, il valore aggiunto di una piattaforma è quella di accorciare le distanze, di ridurre ulteriormente i proverbiali sei livelli di separazione che distanziano ogni singolo nodo della rete dall’altro. Il valore si crea non con la diffusione della notizia quanto con la comunione nella conversazione.
Una nuova campagna d’Italia a sessant’anni dall’acquisto della divisione elettronica dell’Olivetti
In questa logica quanto sta accadendo a TIM appare tanto più interpretabile quanto pericolosamente allarmante.
Se si arrivasse ad una completa alienazione del principale asset del sistema delle telecomunicazioni nazionali, con la cessione al fondo americano, che già ha fatto caccia grossa in Europa, acquistando nell’agosto 2019 il 43,54 per cento del gruppo Springer in Germania per 2,9 miliardi di euro, ci troveremmo sguarniti di centri di pianificazione strategica autonomi in grado di essere architrave di queste indispensabili nuove architetture multimediali.
Un’esperienza che abbiamo già vissuto in altre stagioni, come quando fummo depredati dello straordinario know how che attraverso il cosiddetto Miracolo Economico avevamo inconsapevolmente accumulato in Italia nei primi anni Sessanta, con la Olivetti programma 101 vero e proprio calcolatore da tavola programmabile, la chimica di Giulio Natta, l’elettronucleare di Felice Ippolito, e in pochi mesi ci trovammo solo ai piedi delle auto della Fiat, o quanto ancora accadde negli anni Ottanta con l’internazionalizzazione passiva promossa dalla Fininvest di Silvio Berlusconi che espose il sistema dei consumi pregiati del paese ad una feroce competizione globale a colpi di un alluvionale flusso di pubblicità eterodiretta.
Siamo oggi ad un nuovo atto di queste campagne d’Italia?