di Sergio Bellucci
Le convocazioni di Consigli di Amministrazione di aziende strategiche le domeniche pomeriggio non depongono mai bene. Spesso, ormai, sono il preludio a soluzioni che hanno il centro gli interessi allocato sul terreno finanziario e non industriale. La vicenda TIM, per ciò che è possibile sapere, non fa eccezioni.
Come fu nel passaggio della privatizzazione di Telecom Italia, più di un ventennio fa, siamo di fronte ad un passaggio strutturale. Con qualche aggravante che deriva da una fase storica ormai “digitalmente matura”. A quel tempo, infatti, la privatizzazione di un gioiello industriale e strategico fu giocata con l’illusione di poter “spogliare” dall’interno il valore dell’azienda e rendere quel gioiello industriale nella disponibilità di quello o quell’altro amico della politica e, forse, anche nel grande scambio del nostro ingresso nell’EURO. Tutti, però, si crogiolavano nell’idea che un colosso internazionale come la Telecom Italia – nata dalla ristrutturazione del gruppo STET – avrebbe avuto la forza per restare tra i leader mondiali della telefonia. Tutti, negli anni, entrarono nel grande circo della sua privatizzazione e non solo la politica: dagli Agnelli che pensarono di controllare l’azienda con percentuali risibili (senza metterci veri soldi per l’acquisto…) fino ai nuovi imprenditori o ai Tronchetti Provera, per arrivare alle grandi svendite spagnole e poi francesi. Tutte operazioni fatte tutte su tavoli “politici” per grandi partite di scambio ma con le partecipazioni fattive e gli interessi economici di “grandi gruppo italiani” che provarono a salvare loro stessi a danno della principale infrastruttura di comunicazione del paese.
Mi ha colpito il ricordo che un lavoratore Telecom mi ha inviato ieri dopo aver letto un mio post:
“quel drammatico pomeriggio quando l’AD di Telecom Italia Franco Bernabé parlò in diretta in videoconferenza a tutti i dipendenti. Con le lacrime agli occhi.
E quel pomeriggio capimmo.
Era il maggio 1999. Noi tutti ci schierammo con lui. In quei giorni il Ministro del Tesoro Amato (da poco subentrato a Ciampi) rinunciò all’esercizio della Golden Share, lasciando campo libero alla cordata (il “nocciolino”) di Gnutti e Colaninno. I “capitani coraggiosi”, bresciani di “razza padana”, del Presidente del consiglio D’Alema e del Ministro dell’Industria Bersani, con una scalata a debito di 75mila miliardi di lire.
la più grande scalata della storia del diritto societario italiano, la prima vera prova di una Opa ostile su di un colosso societario attraverso la tecnica nota come Leveraged Buy Out.
L’inizio della devastazione finanziaria, debitoria e industriale del sistema delle telecomunicazioni italiane, privatizzate due anni prima da Prodi e Ciampi.
Noi tutti fummo sconfitti, ma consci di essere dalla parte dell’azienda, dei colleghi, degli utenti e dei concittadini, e ne pagammo, e continuiamo, a pagare duramente il nostro prezzo. Con dignità di lavoratori.”
Non è tutta la storia, ovviamente, i prodomi erano già presenti non solo nel meccanismo di privatizzazione – che aveva quasi risolto la diatriba tra i fratelli Agnelli, che li vedeva divisi tra Gianni che voleva mantenere il core business della Fiat nell’auto e Umberto che voleva approdare alle TLC, attraverso un vero e proprio “regalo” nazionale che accontentava tutti e due: la Fiat rimaneva “auto” e, senza sborsare soldi, si ritrovava padrona delle TLC italiane – ma nell’idea stessa che gli interessi del “privato” potessero coincidere con quelli della collettività per mezzo delle famose “regole” che lo Stato aveva il compito di costruire.
Se è vero, infatti, che i governi di centro-sinistra impostarono e realizzarono molte delle privatizzazioni, presi come furono dalla furia iconoclasta delle logiche neoliberiste che spingevano la globalizzazione, le forze di centro-destra incalzavano i governi accusandoli di non farle fino in fondo, di non lasciare tutto e definitivamente in mano al “mercato”. Altro che invocazioni alla sovranità, quando le partite escono dalla propaganda e approdano alla vita economica.
Vito Gamberale, storico manager di Telecom Italia negli anni Novanta e poi al vertice di Autostrade, in queste ore ha ricordato come “in nessun paese europeo esiste un’industria o un settore strategico che abbia vissuto le peripezie e le stranezze societarie del gruppo Telecom”. “Nel caso di Telecom — ricorda Gamberale — scattò un meccanismo di allontanamento dei cosiddetti ‘boiardi’, ma la verità è che così facendo si è aperta la strada ai veri boia che sono arrivati dopo e che l’hanno letteralmente squartata”. Ricordiamo a chi ci legge e che ormai è condizionato dalle magnifiche sorti del “mercato” e dei “privati”, che, in uno degli ultimi bilanci del gruppo STET – quello in mano pubblica, gestito dal pubblico – il gruppo aveva un MOL (Margine operativo lordo) di ben 19.000 miliardi di lire! E che, nella storia, contribuì al bilancio del Ministero del Tesoro in maniera significativa. Il manager, inoltre, ricorda come nessun paese del G7 abbia ceduto il controllo dell’ex monopolista di Telecomunicazioni. Uno come Marshall McLuhan, che di logica della comunicazione se ne intendeva e non era un pericoloso “comunista” ci ammoniva in tempi non sospetti che “Una volta che abbiamo consegnato i nostri sensi e i nostri sistemi nervosi alle manipolazioni di coloro che cercano di trarre profitti prendendo in affitto i nostri occhi, le orecchie e i nervi, in realtà non abbiamo più diritti. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre”.
Ho raccontato quegli anni in un libro, Il decennio digitale, per chi avesse voglia di ricostruire e conoscere come andarono le cose o rinfrescarsi la memoria di cosa dicevano e facevano le forze che oggi dicono di voler difendere gli interessi degli italiani… Purtroppo, è vero ciò di cui ci ammoniva Tabucchi: “non è un privilegio avere una buona memoria nel nostro paese…”. Troppe verginità si ricostruiscono nel giro di una notte senza alcun pudore e senza pagare dazio… tanto c’è sempre chi paga…
Il punto, oggi, è però un altro.
Oggi dovremmo essere tutti più consapevoli che libertà e “sovranità” (ma anche potenzialità economico-finanziaria di un paese…) si costruiscono e si garantiscono se esiste una autodeterminazione nel settore della comunicazione, delle infrastrutture fisiche e cognitive di una nazione. Stiamo costruendo, attraverso il PNRR, un salto nel mondo digitale? Allora facciamo in modo che questo salto porti allo sviluppo dell’intero paese attraverso una struttura nazionale che fornisca le basi unitarie di una nuova Italia, di una nuova integrazione e di una qualità nuova nella convivenza e nella qualità del fare. Invece, proprio mentre si stanno ipotizzando decine di miliardi per la “Transizione digitale” si rischia di svendere, ad un fondo di investimento speculativo americano, la dorsale comunicativa del paese. Girano già le valutazioni “finanziarie” dell’operazione: Comprare le azioni a 0,505 euro e rivendere i pezzi del gruppo raggranellando il doppio. Il punto, purtroppo, è che a comando delle operazioni non c’è nessun Richard Gere da poter convincere con una “Pretty Woman” che è meglio una soluzione industriale che una finanziaria…
Oggi sappiamo, molto più di ieri e molto più consapevolmente – almeno si spera… -, quanto sia importante per l’economia e il grado di sovranità imprenditoriale e democratica, controllare la rete di connessione, il sistema nervoso di un paese. 25 anni fa la politica poteva fare finta di non sapere cosa rappresentasse il settore delle TLC per il paese e la sua economia. Oggi si tengono i corsi alla Bocconi sulla società digitale e il centro del PNRR è proprio sulla transizione digitale.
Il fondo KKR valuta il gruppo TIM 11 miliardi di euro circa. Beh, è un investimento che potremmo permetterci. Abbiamo speso miliardi e forse giustamente, per tenere in vita la connessione fisica del nostro paese con il resto del mondo intervenendo più volte a evitare la fine di Alitalia. Oggi dovremmo dire che il governo italiano, agendo su Cassa Depositi e Prestiti, dovrebbe far sentire il proprio interesse a mantenere italiana la rete di telecomunicazione e, anzi, a rilanciarne il ruolo internazionale. E se non lo fa lo Stato dovremmo farlo noi cittadini. Il 51% vale circa 6 miliardi, una parte è già in mano di cassa, depositi e prestiti e, con quello che si paga ad esempio per un canone RAI, in 5 anni potremmo essere tutti proprietari della nostra sovranità comunicativa o, almeno, del controllo politico e sociale del flusso delle nostre comunicazioni.
I paesi avanzati decidono le loro strategie industriali indicando ai privati dove e come investire. La Francia ha deciso di essere leader dell’auto elettrica e Macron ne ha fatto una scelta pubblica indicando la strategia francese per questo secolo. Addirittura, “mimando” il Draghi della BCE affermando: “La Francia farà tutto ciò che è necessario per essere la leader mondiale nel settore delle auto elettriche”. Un “Whatever it takes” non finanziario ma industriale, come dovrebbe essere fatto. La Germania, immediatamente e in maniera complementare, ha annunciato di volerlo essere nella costruzione dei propulsori delle auto del futuro. L’Italia deve ancora scegliere cosa vuole essere domani e se l’economia digitale possa essere il nuovo centro della sua rinascita. Per fare questo non può mettere la sua infrastruttura di base in mano agli interessi di un fondo finanziario il cui unico interesse è la redditività immediata (che si genera sempre spezzettando e riducendo i posizionamenti strategici) o, talvolta, anche il condizionamento a interessi che non sono nazionali.
Il silenzio della politica di fronte ad un esito drammatico della vicenda TIM la dice lunga dell’asservimento e della incapacità a svolgere il ruolo per cui dovrebbe essere chiamata. Altro che proclami alla sovranità o bei discorsi sulla difesa delle condizioni del lavoro o della competitività delle aziende fatta sui temi della tassazione o delle regole dei tamponi!
Se la politica c’è ancora, questo è il momento per battere un colpo, indicare una strada al paese, far comprendere che esiste una strada sulla quale indirizzare gli sforzi del paese per prendere un cammino diverso. Il resto sono Bla Bla Bla da Talk Show.