Soldi e Fuortes. Un’americana e un mediterraneo. Una manager dei contenuti come presidente, un robusto amministratore di spettacolo come amministratore delegato. Il colore non manca nell’accoppiata uscita dal cilindro del presidente del consiglio per la Rai.
Articolo pubblicato su Ytali.com
di Michele Mezza
Un’americana e un mediterraneo. Una manager dei contenuti come presidente, un robusto amministratore di spettacolo come amministratore delegato. Il colore non manca nell’accoppiata uscita dal cilindro di Mario Draghi per la Rai.
I due nomi attesi a Viale Mazzini hanno soddisfatto pochi, lasciato molti interdetti, e tanti del tutto insicuri.
L’ideale comitato di ricevimento che attende al cavallo periodicamente i temerari che s’avventurano nel palazzo d’amianto per tentare l’eterna riforma dell’azienda radiotelevisiva, questa volta appare meno baldanzoso.
Di solito in poche ore il gruppetto formato da un paio di dirigenti in giacca e cravatta dediti al bacio della pantofola, con attorno il segretario dell’Usigrai che prende le prime misure sul tasso di consociativismo da praticare e il folto gruppetto di quadri sindacali che devono scegliersi il consigliere di riferimento, aveva archiviato le velleità dei nominati. Qualche fotografia nel salone degli arazzi, le solite dichiarazioni di collaborazione, l’impegno per una gestione autonoma e professionale. Subito dopo si cominciava a far girare le mole del nominificio che accomunava il gruppo selvaggio.
Solo una volta vi fu sgomento, se non proprio terrore: nel 1992, in pieno furore di mani pulite quando arrivarono cinque professori , guidati da Claudio Demattè, docente di tecnica bancaria della Bocconi come presidente, e da Luigi Locatelli, ex direttore del Sole 24 Ore, come direttore generale. Il gruppetto di accoglienza cominciò a litigare subito fra di loro per stabilire le appartenenze politiche: quello è un socialista, si diceva del presidente, ma non è vero, rispondevano gli ambasciatori del Psi. Locatelli è democristiano, ma chi l’ha mai visto, replicavano da Piazza del Gesù.
In realtà i partiti erano dispersi da Di Pietro e non rispondevano più al telefono. La primavera di libertà durò poco più di un anno, poi con il ‘94 berlusconiano, il gruppetto del cavallo ritrovò la bussola geo politica.
Oggi il quadro appare simile nella forma ma diverso nella sostanza. Allora era evidente che si trattava di una ricreazione, che prima o poi sarebbe terminata. Oggi siamo nel pieno di una transizione, che sta conducendo tutto il paese in uno scenario inedito.
Il deus ex machina è indiscutibilmente il premier Draghi, e soprattutto il suo staff di assistenti e consulenti, in gran parte ancora sconosciuti. Il casting l’hanno fatto loro e i due nomi selezionati mostrano chiaramente i criteri di scelta.
La presidente è una figura considerata un outsider del mercato televisivo: grande patron di Real TV, un’emittente che in pochi anni, senza soldi e appartenenze si è creata uno spazio, anzi è diventata un format nel mondo della TV.
In nomen men e anche femmina. Marinella è Soldi di nome e di fatto: efficace amministratrice e fantasiosa imprenditrice, che con la sua ultima esperienza a Vodafone, il gruppo di provenienza del ministro Colao, ha anche irrobustito la sua pratica nei grandi apparati. Carlo Fuortes è un compendio antropologico della nuova governance del paese.
Nasce come studente della scuola economica di Federico Caffè, dove giganteggiava un già adulto Draghi, poi attraversa l’ultima esperienza del Pci, meglio a Roma con i giovani comunisti di Bettini, qui incontra Veltroni e comincia a impratichirsi nell’amministrazione culturale. E promosso anche da Rutelli che prepara alla direzione del nascente Auditorium che guida per dodici anni, attraversando le amministrazioni di Marino, del fascista Alemanno per arrivare all’allegra brigata dei Cinque Stelle che lo spingono ad altre esperienze, prima al Petruzzelli di Bari poi all’Arena di Verona infine allo sgangherato Teatro dell’Opera nella capitale, dove convive felicemente con la presidenza Raggi.
La sequenza delle esperienze indica una specialità nel coniugare buona amministrazione – a Bari e Verona ripulisce carrozzoni compromessi – con un’ambiziosa attività culturale che propone l’Auditorium e il Teatro dell’Opera ai vertici del sistema nazionale culturale.
Ma la qualità manageriale degli inviati a Viale Mazzini spesso è stata un’aggravante. Con Campo dell’Orto ad esempio è diventata isolamento interno, con Gubitosi isolamento esterno. Il vero buco nero che ingoia tutti i figli di Cronos, che la politica sceglie per domare il cavallo della Rai riguarda il mandato. Ossia quella prospettiva, quel programma, quella strategia, che i mittenti concordano con i nominati.
Quando il mandato è di pura sopravvivenza, o peggio di compromissione, la professionalità del manager viene umiliata e dunque diventa un deficit. Quando invece la domanda politica è troppo ambiziosa e dunque vaga, le capacità diventano frustrazioni.
Il più delle volte però il mandato manca completamente: il capo del governo di turno, per sgattaiolare nella morsa dei suoi alleati, illanguidisce l’obiettivo per far rientrare tutte le cupidigie delle singole bande.
In tal caso Viale Mazzini diventa un nido di ragni, in cui neppure Calvino ne uscirebbe vivo.
Questa volta ci sono due elementi che rendono inedito il quadro aziendale. Da una parte la crisi del sistema radiotelevisivo non permette galleggiamenti, dall’altro la politica, come sistema dei partiti è in terapia intensiva, e solo Draghi al momento controlla la bombola d’ossigeno del Recovery Fund.
Dunque siamo a un passo decisivo. I due dioscuri arriveranno dinanzi all’ingresso aziendale, osservati dal circolo Pickwick dell’accoglienza e, idealmente si troveranno dinanzi una piramide di barattoli di smontare.
Troppe ridondanze, troppi duplicati, inutili barocchismi procedurali, figure professionali superate, mancanza di competenze digitali, assenza di linguaggi di rete.
Il tutto con un deficit di almeno duecento milioni l’anno, che minaccia di riprodursi a esaurimento.
Cosa faranno Soldi e Fuortes? Inizieranno dal barattolo in cima, che lascia del tutto inalterato il sistema deformato? O invece metteranno mano al barattolo alla base che farà venire giù la piramide barocca ?
E per fare cosa? Oggi, secondo una logica elementare, tre sono i pezzi fondamentali per un servizio pubblico competitivo e sistematico: Rai Play, da rendere più Play e meno Rai; Rai Storia, da far uscire dal salotto di chi la produce; e RaiNews24 che deve tornare d essere, come all’orgine, un motore e non una vetrina, un sistema di produzione di flusso delle news del paese, mixando ogni fonte e linguaggio. Il resto è davvero noia: tre TG in contemporanea possono ancora reggere? La sovrapposizione di rubriche e format del tutto identici, può ancora essere sopportata? Quasi duemila giornalisti, senza caratteristiche digitali, con un’organizzazione del secolo scorso, e una distribuzione prefettizia possono ancora essere giustificati ?
Soprattutto la principale azienda multimediale del paese può ancora dipendere da intelligenze e tecnologie da fornitori tanto al chilo? E il sistema produttivo può ancora non integrarsi nel mosaico territoriale e diventare un impresario dei talenti nazionali e non solo aziendali?
Sono le domande che trasformeranno la nuova accoppiata del vertice dall’ennesima delusione a una prima opportunità.