Articolo pubblicato su Il Manifesto del 2 settembre 2020
di Vincenzo Vita
Il prossimo 7 di settembre entrerà nel vivo il processo contro Julian Assange presso l’Old Bailey Court della prigione di massima sicurezza di Belmarsh, in cui è detenuto il fondatore di WikiLeaks.
Il dibattimento riguarda la richiesta di estradizione richiesta dagli Stati uniti (quella della Svezia è caduta per strada), che intendono a loro volta mettere sul banco degli imputati il coraggioso disvelatore di tanti possibili crimini di guerra, nonché di zone buie e indicibili del potere. Il rischio serissimo che corre il giornalista australiano è di essere condannato a qualcosa come 175 anni di carcere duro, pena comminata eventualmente dal tribunale <dello spionaggio> dell’East Virginia, dove – per questioni territoriali e logistiche- la giuria popolare è composta per l’85% da giurati legati a Cia, Fbi, pentagono, home security.
E’ il primo grado di giudizio quello in corso. Seguiranno gli ulteriori gradi e certamente verrà adita la corte europea dei diritti dell’uomo, cui gli avvocati ricorreranno. Nel frattempo, se il corpo assai provato del <presunto colpevole> cedesse? Speriamo, ovviamente, di no. Tuttavia, a pensar male in questo caso non si fa peccato, anzi si conquistano crediti per il paradiso.
Già, dieci anni di detenzione, tra segregazione nell’ambasciata dell’Ecuador (con tanto di microspie gentilmente offerte da qualche responsabile della sicurezza all’amico americano) e carcere speciale logorerebbero un superman. Naturalmente, una detenzione avvolta dal segreto, come d’uso anche nei paesi più o meno democratici quando si tratta di terrorismo o spionaggio. Ecco il punto, che rende la terribile vicenda emblematica di qualcosa di grave e pericoloso che sta accadendo sulla libertà di stampa. Il punto di riferimento del vasto gruppo di attivisti di WikiLeaks non gode delle prerogative riconosciute ad un giornalista di inchiesta, ma è classificato come informatore di paesi stranieri. Secondo una vecchissima legge di guerra.
Nel mirino c’è proprio Assange, capro espiatorio designato, a differenza dei prestigiosi quotidiani che ne hanno pubblicato le rivelazioni (New York Times, Guardian, Spiegel). Colpirne uno per educarne cento, mille? Chi ha portato alla luce i misfatti degli Stati uniti in Afghanistan, in Iraq, a Guantanamo o i cablo compromettenti dai quali emerge l’attività di sorveglianza persino dei e sui leader dei paesi alleati è colpevole, mentre i veri colpevoli sono innocenti? Magari in giro per il mondo a tenere conferenze ben remunerate?
700.000 documenti, di cui ha parlato con cura l’infaticabile giornalista Stefania Maurizi, sono la prova provata di misfatti atroci. Anzi. Testimoniano la crudeltà di un imperialismo un po’ ammaccato e comunque crudele. Se c’è una giustizia, questa dovrebbe occuparsi di Blair, Sarkozy, Bush jr, innanzitutto. E la filiera è lunga. Non basta neppure l’inferno, probabilmente.
Il caso, dunque, evoca un problema generale e segna una fase storica, in cui la buona informazione indipendente e non omologata è un rischio vero. Beata la stagione che non ha bisogno di eroi, si direbbe. Purtroppo, oggi diventare eroine o eroi sembra quasi una necessità.
E’ urgente una mobilitazione civile per Assange. Forse è un personaggio difficile, ma va difeso strenuamente. Perché se perde lui, perde la libertà di informazione. Non a caso si sono espressi la federazione internazionale dei giornalisti, quella italiana, l’associazione <Articolo21>. Lo stesso inviato speciale delle Nazioni unite (nette nel 2015 contro la detenzione) contro la tortura Nils Melzer si è mostrato molto preoccupato e ha denunciato le gravi responsabilità dei diversi paesi implicati: Stati uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador.
In fondo, la sgradevole storia è una sorta di autobiografia di un processo post-democratico nell’era post-democratica.
Attenzione a sottovalutare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Sarebbe augurabile un’iniziativa nei parlamenti italiano ed europeo, con risoluzioni volte a chiedere conto in base alle stesse leggi e convenzioni internazionali. Tira una brutta aria, dall’Ungheria, dalla Polonia, dalla Slovacchia, da Malta, dalla Russia e, udite udite, dalla nobile terra della Regina.