di Gianni Montesano consigliere nazionale Ordine Giornalisti
Dal carcere e dalla riforma della diffamazione al tema delle minacce, dalla deontologia alla disciplina per arrivare all’ordinamento professionale. Il tema delle riforme per la categoria va rilanciato con forza. Nulla sarà come prima. Con la pandemia le difficoltà stanno aumentando e serve uno sforzo comune per innovare la professione.
Il 9 giugno la Corte Costituzionale si esprimerà sulla legittimità della pena detentiva per il reato di diffamazione a mezzo stampa, potrebbe arrivare (col condizionale) un risultato storico che costringerebbe il Parlamento a rimettere mano alla riforma della legge, tante volte tentata in passato e sempre arenata nelle sabbie mobili. Un provvedimento che va ben oltre i suoi confini ma che potrebbe innescare un circolo virtuoso per dare una scossa all’ordinamento ormai arcaico di tutta la categoria. Perché un intervento sulla diffamazione potrebbe sollecitare gli altri due nodi irrisolti per i giornalisti: l’ordinamento professionale (a partire dalla riforma dell’accesso) e il tema della disciplina.
C’è un legame che unisce questi tre aspetti. Il tema della pena detentiva a fronte della diffamazione a mezzo stampa credo sia “non negoziabile”. Bene ha fatto il CNOG a rifiutare l’udienza a porte chiuse presso la suprema corte, determinando il rinvio a giugno. Sono anni che la Corte Europea dei Diritti umani ha dichiarato inammissibile tale pena e sono anni che se ne discute. Ebbene è utile che, a fronte di un giudizio, si apra un dibattitto su quest’argomento, una discussione pubblica su un punto cardine che riguarda la libertà di stampa e il sistema delle intimidazioni che sovente la minacciano.
In piena emergenza sanitaria sarebbe stato impossibile avviare un confronto. Inoltre la posizione dell’Avvocatura, favorevole alla legge attuale, può essere cambiata solo con un forte esercizio dell’autorità politica, che nella fase acuta della pandemia non sarebbe stato certo praticabile. Non entro nel merito della vicenda giuridica, condivido le analisi elaborate dall’Osservatorio Ossigeno per l’informazione che, con una serie di interventi, ha ben sviscerato il problema.
Rivedere la pena del carcere vuol dire mettere mano alla legge sulla diffamazione nel suo complesso. In Italia c’è un crescendo impressionante di minacce e violenze contro la stampa. Uno dei più gravi il 21 di aprile scorso quando è stata data alle fiamme l’auto di Fabio Buonfiglio, giornalista e direttore di un giornale online nel cosentino, in Calabria. Per non parlare delle decine di cronisti sotto scorta, ultimo dei quali l’ex direttore di Repubblica Carlo Verdelli.
A questa spirale di violenza, fisica e verbale, si aggiungono le iniziative giudiziarie. Serve un freno al dilagare di una pratica intimidatoria che colpisce soprattutto freelance e giornalisti che non hanno alle spalle editori strutturati. Avere una querela, per quanto infondata, significa per un giornalista temere per il suo futuro economico, per la sua famiglia: tutto cade sulle sue spalle, per anni e anni.
Un processo civile o penale in Appello arriva sino a tredici – quattordici anni, un calvario e una spada di Damocle sulla propria vita. Per la prima volta il Cnog ha deciso di affrontare l’argomento del sostegno ai colleghi minacciati, ma il come è ancora tutto da definire.
Abolizione del carcere e revisione della diffamazione vanno, quindi, di pari passo, ma se si vuole portare a casa una seria riforma occorre mettere sul piatto anche il loro contrario: il rispetto della deontologia professionale e la disciplina per i giornalisti. In questi mesi di quarantena forzata abbiamo visto una serie di sparate a raffica di Vittorio Feltri e di titoli inaccettabili di Libero Quotidiano. Anche qui l’Ordine è intervenuto con le doverose segnalazioni. Cito questo perché è il più eclatante, ma di casi ce ne sono tanti. Compreso il triste epilogo del collega campano Di Michele, indagato per aver architettato un finto attentato a colpi di pistola contro se stesso per suscitare attenzione e “spendere” una sorta di patente da giornalista anticamorra.
La disciplina dei giornalisti comincia a mostrare pesanti limiti, non tanto nella autonomia, su cui concordo e che deriva da una direttiva europea, ma nelle capacità di intervento sanzionatorio. I Consigli di Disciplina sono autonomi ma non sono un corpo estraneo del giornalismo e dell’Ordine dei giornalisti.
Provengono da quelle elezioni democratiche, quindi la loro formazione, preparazione e gestione tecnica – amministrativa dipende dal Cnog e dalle sue leggi: un marchingegno normativo antiquato che ne imbriglia l’iniziativa, suscitando puntualmente le ire via social di colleghi giornalisti e di cittadini inferociti. Occorre una proposta più netta sulla disciplina, da inserire nel canovaccio già elaborato della riforma dell’ordinamento professionale. Così non funziona, come non funziona il semplice richiamo etico al rispetto della deontologia, troppo spesso dimenticata proprio da coloro che si trovano nelle posizioni di maggior visibilità e forza.
A fronte di questi problemi non bastano i semplici slogan, servono proposte strutturate da far camminare con gambe salde. In questa consiliatura il Cnog ha elaborato una ipotesi fortemente innovativa di riforma della professione, che guarda al mondo delle nuove tecnologie e al nuovo ruolo del giornalista, un canovaccio che farebbe saltare il collo di bottiglia del praticantato gestito dagli editori e aprirebbe ai profili digitali della comunicazione. La proposta va resa più solida e dettagliata, andrebbe portata in Parlamento senza indugiare su coloro che si oppongono in nome della conservazione di uno status quo le cui conseguenze rischiano di essere solo un ulteriore indebolimento del profilo del giornalista. E’ vero che abbiamo dovuto far fronte ad un attacco frontale, mai visto prima, all’Ordine e alla categoria, durato un anno intero.
E’ vero che è arrivata la pandemia. Adesso serve mettere a fuoco la strada da percorrere e le cose che si vogliono fare. Senza timore di tracciare una linea tra chi vuole compiere dei passi avanti nell’ordinamento professionale e chi, invece, spera che le acque restino stagnanti. Dopo il Coronavirus nulla sarà più come prima, e le difficoltà del lavoro giornalistico aumenteranno: serve un impegno rinnovato e preciso, comune, puntando ad obiettivi concreti per la categoria. Non è andato tutto bene, ma ce la dobbiamo fare.