La fune spezzata dei freelance

di Valerio Nicolosi 
Il Covid 19 cambierà il mondo. Come questo avverrà  dobbiamo ancora capirlo. Quello che sappiamo però è che alcune tipologie di lavoro sono a rischio estinzione, come gli animali a cui viene data la caccia da decenni.

La caccia decennale in questo caso è il precariato imposto a chi fa un mestiere che spesso non è stabile per natura, quello del reporter, ma che con un sistema editoriale diverso, potrebbe tornare ad esserlo.

Sto cercando una collaborazione un po’ più stabile”  è una delle tante frasi che tra colleghi si sente dire più spesso. Alcuni ci riescono, ma comunque parliamo di Partite Iva con un fisso mensile, una contraddizione in termini.

Chi si occupa di esteri e migrazioni poi, fa ancora più fatica. Non sempre si ha una formazione specifica per queste tematiche, soprattutto quando le migrazioni diventano il tema del momento e le firme importanti dei giornali vengono dirottate a parlare di questi argomenti. Così succede che in un servizio di un TG di una rete pubblica nazionale l’Arabia Saudita diventa un Paese sciita e l’Iran un Paese sunnita o che ad una nave di una ONG ferma in porto gli si attribuisce un soccorso in mare, effettuato da un’altra ONG che batte bandiera di un altro Stato e che non c’entra nulla con la prima. Questi sono solo degli esempi che spesso vengono derubricati a “sviste” o “gaffe”, quando vengono riconosciuti, ma che danno la cifra di quello che accade.

Quando Conte ha dichiarato l’Italia zona rossa ero nell’Isola di Lesbo, ero arrivato lì dopo una settimana di lavoro lungo il fiume Evros, quello che divide la Grecia dalla Turchia, per raccontare la crisi dei rifugiati siriani lungo il confine. Ero lì per un documentario sulle Frontiere d’Europa e scrivevo per Il Manifesto, il quotidiano tedesco Junge Welt e il settimanale svedese Arbetareen.

In realtà nei due mesi precedenti ero stato anche in Polonia, Germania e Spagna per occuparmi di estrema destra e fake news in Europa, oltre che in Bosnia e in Croazia per la Rotta Balcanica. Documentari e reportage con foto e testi, un modo per “svoltare” lo stipendio utilizzando diversi strumenti ed ottimizzare il lavoro che faccio durante i viaggi.

Bello” diranno in molti, ed è verissimo perché prima di essere il mio lavoro è soprattutto la mia passione, però talmente precario che ti sembra di vivere in bilico su di una fune tirata e legata ai due estremi di una gola. Sotto il vuoto, davanti a te un bellissimo lavoro che all’improvviso può farti perdere l’equilibrio e farti cadere.

Questa caduta è arrivata con il Covid: ero tornato a Lesbo da 7 ore quando Conte ha annunciato la chiusura. Ero a cena con dei ragazzi di una ONG che avrei dovuto intervistare la mattina successiva quando ho preso il telefono e ho cercato i voli di ritorno per il giorno successivo. L’ultimo aereo da Atene utile era quello del giorno dopo, alle 19:30. Preso!

A quel punto le redazioni hanno chiuso i rubinetti, le pubblicità sono crollate, gli eventi sospesi hanno bloccato tutto e ovviamente i primi a farne le spese nel mondo dell’informazione sono stati i freelance. 

L’idea oggi di ripartire è lontana ma soprattutto c’è la grande incognita del periodo di quarantena: se per ogni viaggio dovessi fare 14 giorni di quarantena nel Paese d’arrivo ed altri 14 giorni al rientro in Italia, un lavoro di una settimana sul campo diventerebbe di 5 settimane. Negli ultimi 2 anni ho partecipato a 7 missioni in mare sulle navi delle ONG, mediamente si sta in mare dai 15 ai 21 giorni ma se a questi devono aggiungersi altri 14 di quarantena in porto come può un freelance imbarcarsi? 


Economicamente è insostenibile. I giornali negli ultimi anni hanno ridotto al minimo i viaggi degli inviati e se questa tendenza dovesse confermarsi, le notizie dall’estero e sui migranti saranno scritte tutte dalla redazione, riprendendo le agenzie e i comunicati delle ONG o dei governi: non proprio il tipo d’informazione che un lettore si aspetta. 

Stabilizzare le risorse necessarie a produrre un giornale dovrebbe essere la norma ma oggi risulterebbe come una piccola rivoluzione dalla quale sarebbe la stessa informazione a trarne vantaggio. 

Quello che invece accadrà sarà altro: ci saranno pezzi pagati ancora meno e in tanti e tante colleghe dovranno trovare altro, probabilmente fuori dal mondo dell’informazione. La crisi ancora una volta la pagheranno i più deboli. 

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