di Michele Mezza
Parlando con dei giornalisti dell’app in preparazione, oltre le più elementari considerazioni sulla confusione e ambiguità di procedure e soluzioni, forse sarebbe bene partire da un dato, che per quanto mi riguarda è prioritario.
Il coronavirus è la prima crisi globale che si manifesta, si riconosce e si combatte attraverso sistemi di comunicazione individuale.
Non è mai successo!
Fino oggi le crisi si realizzavano all’interno di apparati – diplomatici o militari o finanziari o proprio sanitari- e successivamente si comunicavano attraverso i media. E i giornalisti li veicolavano con i linguaggi del momento.
La pandemia è un fenomeno che si percepisce attraverso segnali individuali- sintomi e stati di malessere- che, combinati fra loro, determinano la struttura e la virulenza del fenomeno.
Tutto si gioca sui tempi di percezione. Bisogna essere veloci almeno come il virus, altrimenti si fa la fine di Bergamo e Brescia.
In questi due mesi si è scatenata una guerra di informazioni che ha del tutto ignorato la presenza dei giornalisti.
Intanto nella manifestazione del fenomeno. Chi e come si è accorto di quanto accadeva? E come? Basta guardare a cosa sia accaduto in Veneto e in Lombardia. Nella prima regione un avvertito gruppo di virologi ed epidemiologi fin da gennaio ha capito che stava arrivando il temporale, combinando le informazioni che venivano dalla Cina con segnali deboli, avrebbe detto Mc Luhan, quali i comportamenti sui social, predisponendosi ad un’azione di contrasto territoriale, rivelatasi efficacissima.
Nulla di questo è stato mediato dai sistemi di comunicazione convenzionale. In Lombardia si è aspettato che la gente arrivasse in ospedale, contando sulla potenza di apparati subito subissati e paralizzati dalla domanda di assistenza.
Faccio questa premessa perché valutare un’app come strumento coadiuvante del distanziamento sociale significa collocarla in questo contesto: un processo di accelerata autonomizzazione dei corpi sociali nel produrre e scambiare informazione. Forse per altri è una pura speculazione sociologica. Per chi come noi vive di intermediazione mi pare una constatazione molto, ma molto, concreta.
Il secondo elemento in cui dobbiamo collocare la nostra app riguarda l’annosa questione dei big data.
Siamo in uno scenario in cui il controllo di ogni nostra azione ed emozione è completo da parte degli OTT che si permettono, come hanno fatto Google e Apple, proprietari dei due sistemi operativi ( rispettivamente Android e iOS) che muovono il 94% degli smartphone del pianeta, di dettare le condizioni per ospitare eventuali applicazioni integrative dei sistemi sanitari dei singoli paesi.
In questo quadro parlare di privacy o di minaccia di grande fratello nazionale è davvero un paradosso, come dire che a Palermo il problema è il traffico. Noi siamo da anni scannerizzati e misurati in ogni nostra azione per fini esclusivamente speculativi, con riflessi preoccupanti sulle stesse istituzioni democratiche, come l’intera vicenda, ancora non conclusa, di Cambridge Analytica dimostra. Tutti possono permettersi di far finta di niente, di distrarsi, di privilegiare il proprio immediato orizzonte temporale. Non possono i giornalisti che in questo scenario vivono e soffrono da tempo.
Arriviamo all’app.
Per quello che vale il parere di uno dei tanti fanfaroni del settore, come me, dico subito che stiamo parlando di una bolla di sapone che si sgonfierà prima ancora di realizzarsi, per l’indifferenza generale e perché qualcuno ha già deciso di consegnare tutto a Google e Apple, come forse il ministro dell’Innovazione potrebbe dirci.
Al momento, dopo un mese di discussioni, polemiche petizioni e intemerate requisitorie contro il KGB in salsa mediterranea, sappiamo ancora poco.
Il decreto del presidente del consiglio che indica le disposizioni attuative non ci dice ad esempio quale sia il soggetto pubblico che dovrà gestire il dispositivo. Ma chi se non il ministero della sanità? Chi se non il sistema che presidia e assicura la sicurezza della nostra salute, a norma dell’articolo 32 della costituzione, può integrare quest’app nelle strategie sanitarie e collegare i dati che se ne ricaveranno all’epidemiologia nazionale, ne’ più ne’ meno come le nostre cartelle cliniche ? Inoltre il Ministero della sanità avrebbe anche la caratteristica di assicurare, come ulteriore rassicurazione, il segreto professionale a protezione dei nostri dati. Se non è così, e al momento non lo è, capisco che vi debbano essere altre pulsioni. Tanto più se si parla di affidare il sistema centrale a cui si deve appoggiare l’app per attivare, con i codici cifrati, la rete di segnalazione ai telefonini delle persone incontrate da un eventuale positivo, alla Sogei e incaricarne della gestione del servizio la societa Pagopa, che cura i pagamenti digitali della pubblica amministrazione. Due mosse che sembrano fatte apposta per allertare apprensioni e fantasmi contro il sistema digitale.
Inoltre, lo scrive Wired senza essere stato smentito, non pare ancora chiara nemmeno la scelta del sistema. Si parla di una soluzione Bending spoons, riferendosi ad una conglomerata sociale in cui ci sono personaggi disinvolti, e debuttanti come i rampolli Berlusconi, ma in realtà la task force del ministero dell’Innovazione ha solo selezionato due proposte, fra le molte pervenute, come le più affini alla mission e alle caratteristiche che deve avere il progetto. L’altra si chiama CovidApp, ed è stata presentata da un gruppo di sviluppatori indipendenti.
Il commissario Arcuri nella sua ordinanza si è dimenticato di questo dettaglio, riferendo il progetto dell’app italiana solo alla proposta Bending Spoons.
Superato questo dettaglio, che non sembra proprio irrilevante, rimangono i dubbi sul sistema sulla struttura dell’app, che per altro al momento ancora non esiste, stiamo parlando solo di relazioni cartacee, manca un prototipo o almeno uno schema renderizzato.
Originalmente la proposta prevedeva un server centrale in cui dovevano confluire i dati raccolti dai rimbalzi dei Bluetooth dei nostri telefonini che, incrociandosi per almeno 15 minuti, reciprocamente memorizzano i segnali dell’interlocutore.
Questi dati, per un esplicito ultimatum di Google e Apple, devono rimanere residenti nei telefonini, magari a disposizione dei rispettivi sistemi operativi. Dunque bisognerà riscrivere il concept, elaborare un’architettura basata sui terminali mobili e una semplice infrastruttura trasmittente che attivi, con il codice che il medico rilascia una volta riscontrata la positività di un soggetto. Con quel codice viene lanciato un segnale che la rete dei telefonini, grazie alla compiacente collaborazione appunto di Google e Apple, è in grado di raccogliere e di rilanciare attraverso tutti quegli smartphone che hanno memorizzato quel codice d’incontro cifrato.
A quel punto che succede? L’interrogativo è pendente. Su un certo telefonino di una certa persona che per almeno 15 minuti ha incontrato quel paziente che è successivamente risultato positivo, apparirà un allarme che gli dice che potrebbe essere stato infettato. Da questo momento non è chiaro cosa potrà accadere. Quel segnale è titolo sufficiente per un tanpone? Per essere assistito a domicilio? Per pianificare una visita o un test? Non si sa. E’ questo l’ultimo buco nero che rischia di ingoiare questo pasticcio. Se non c’è una procedura terapeutica quell’allarme oltre a produrre la paranoia di chi lo riceve a che serve?
Come vedete, almeno a me appare evidente, tutti questi interrogativi sarebbero sodisfatti se, fin dall’inizio, l’intera operazione fosse state impostata e guidata dal ministero della sanità e dai suoi servizi digitali, che ricordiamo hanno già memorizzato tutte le cartelle cliniche storiche degli ospedali italiani, per cui chi ritiene di non tollerare controlli o tracciamenti sappia che può chiedere la cancellazione dei suoi dati, ovviamente sollevando il servizio sanitario nazionale dalla responsabilità del curarlo.
Questa è l’app. Ma la luna da guardare è il sistema di automatizzazione della comunicazione che vede in questi giorni un’ulteriore devastante disintermediazione, gestita dai monopolisti di dati e algoritmi.