di Alessandro Gaeta
C’è una pagina di giornalismo civile che in questi giorni dell’Emergenza Coronavirus è ancora tutta da scrivere. Stiamo riempiendo pagine e pagine di inchiostro, stiamo animando blog e spazi di informazione online, stiamo trasmettendo maratone televisive sulla pandemia che sta sconvolgendo le nostre vite ma abbiamo detto e scritto molto poco sulle categorie deboli, le vittime collaterali del distanziamento sociale.
Una pratica necessaria in questa fase in cui il contagio da Covid 19 non si ferma ma che colpisce anche le famiglie (quasi sempre mono-genitoriali) con un diversamente abile a carico. Nel giro di 15 giorni la nostra vita è cambiata, la loro molto di più: hanno perso la scuola (rimasta virtualmente aperta solo per chi sa usare un computer in autonomia) e hanno perso ogni forma di assistenza domiciliare e di attività motoria nelle palestre e nelle piscine. Un dramma nel dramma che si scarica sulle spalle di genitori, fratelli e sorelle dei diversamente abili diventati -a causa di una loro ridotta capacità di autocontrollo- anche oggetto di stigma proprio da parte di chi proprio in questo frangente avrebbe dovuto cercare di assisterli il più possibile.
È inevitabile che in questa fase di emergenza gli unici che possono sopperire a questo vuoto di assistenza sono i care-giver. Eppure il decreto cosiddetto Cura-famiglie neanche li cita. Per questo dobbiamo fare rete e amplificare il più possibile questo grido di dolore
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