di Luca Cifoni, Jacopo Orsini, Diodato Pirone
(Questa lettera è stata mandata dai firmatari, giornalisti del Messaggero, ai loro colleghi di Redazione)
Mentre a partire dagli anni Novanta il Paese si è fatto carico di impegnative riforme delle pensioni, ampiamente e a volte entusiasticamente illustrate dai media, i giornalisti italiani sono vissuti nell’illusione di poter applicare a sé stessi regole diverse e ben più generose. A fronte di contributi più bassi di diversi punti di quelli versati per la generalità dei lavoratori, la nostra pensione veniva calcolata con un sistema retributivo che comprendeva tra l’altro la mitica aliquota di rendimento del 2,66% (invece del 2% applicato dall’Inps: vuol dire che con carriere di almeno 38 anni – per la prima fascia di retribuzione pensionabile – viene garantito un assegno superiore al 100 per cento dello stipendio). Inoltre, al di là dei casi di crisi aziendali, restava la possibilità di accedere alla pensione ben prima dell’età della vecchiaia, anche con meno di 35 anni di contributi. Il deterioramento del rapporto tra contributi e spesa pensionistica è evidente almeno dalla metà degli anni Duemila, nonostante l’aumento degli iscritti legato tra l’altro all’ingresso di pubblicisti e dipendenti della PA. La dirompente crisi dell’editoria e le varie ondate di prepensionamenti hanno solo accentuato e accelerato una tendenza già in atto. A parte il graduale aumento dell’aliquota contributiva IVS (comunque al 28 per cento fino al 2005 e al 29 fino a tutto il 2011, a fronte del 33 dell’Inps) le varie riforme approvate prima di quella del 2016 del non hanno sostanzialmente intaccato il quadro. E l’assetto attuale, per quanto vicino a quello della previdenza pubblica, non cancella gli effetti dell’età delle vacche grasse, cristallizzati per molto tempo a venire nei trattamenti già erogati e nei cosiddetti diritti acquisiti di chi ancora lavora, per le quote relative ad anni precedenti.
L’ingresso dei comunicatori non ci può salvare
Siamo così arrivati al presente: nel 2019 gli incassi contributivi pari a 390 milioni hanno dovuto far fronte a una spesa per prestazioni che ne vale 559; il saldo negativo quindi è di ben 169 milioni. In questa situazione non esistono scorciatoie o soluzioni miracolose: non lo era la fittizia valorizzazione degli immobili e non lo è nemmeno l’invocato allargamento della platea ai comunicatori. Intanto per l’ovvia considerazione che se pure l’operazione andasse in porto, tra non molto tempo ci sarebbero da pagare anche le loro pensioni. Ma va anche osservato che al momento questa misura risulta scritta sull’acqua. La norma contenuta nella legge 58/2019 rimanda infatti (senza peraltro mai nominare i comunicatori) a regolamenti da emanare in futuro, atti che per inciso potranno essere direttamente o indirettamente impugnati al Tar o disapplicati dal giudice ordinario qualora siano in ballo diritti soggettivi. Nel 2000 quando i pubblicisti furono fatti confluire nell’Inpgi venne lasciata loro la possibilità di optare per la permanenza nell’Inps; e nel 1994, al momento della privatizzazione dell’Inpgi, agli allora iscritti fu data la facoltà di uscire per transitare nell’assicurazione generale obbligatoria. È difficile immaginare che nel testo del regolamento, se e quando arriverà, ci possa essere una disparità di trattamento e quindi verosimilmente la stessa chance sarà riconosciuta ai comunicatori, molti dei quali sono tutt’altro che entusiasti dell’idea di cambiare ente previdenziale.
Ai giornalisti è garantito per legge solo l’assegno sociale
L’Inpgi viene spesso descritto come una realtà del tutto particolare, una sorta di ibrido tra pubblico e privato. Questo può essere vero per alcuni aspetti, che tuttavia non eliminano un dato di fondo ben specificato nel decreto legislativo 509/1994: l’istituto e le altre casse hanno natura giuridica privata e non hanno diritto a finanziamenti pubblici “diretti o indiretti”. Il provvedimento è altrettanto preciso nel delineare la procedura da seguire in caso di disavanzo finanziario: prima la nomina di un commissario straordinario poi, dopo tre anni, la liquidazione coatta. Se si arrivasse a un esito di questo tipo, gli assicurati si ritroverebbero senza paracadute, non avendo per legge diritto a nessuna prestazione pubblica se non l’assegno sociale. Tutto ciò andrebbe ricordato da chi sostiene che si può tentare di salvare l’autonomia dell’istituto e le prestazioni da esso erogate, perché tanto “alla peggio si finirebbe comunque nell’Inps”. L’alternativa al (tutt’altro che improbabile) fallimento dell’Inpgi dipenderà dalla capacità della categoria di gestire questo passaggio da una posizione certo non di forza ma quanto meno di minore debolezza. Quindici anni fa c’era qualche margine in più, tra due o tre è difficile che ce ne sia ancora qualcuno.
Non c’è alternativa a una confluenza ordinata nell’Inps
Tutto ciò dovrebbe far capire che la confluenza dell’Inps non sarà indolore ma è l’unica soluzione realisticamente praticabile. Perché lo Stato, che da pochi anni ha cancellato realtà ben più consistenti quali Inpdap ed Enpals, dovrebbe accettare di dare vita ad un altro ente pubblico, con il suo contorno di poltrone e poltroncine, caricandone i costi sulla collettività? Per lo stesso motivo è difficile immaginare un processo che non abbia qualche conseguenza sulle prestazioni presenti e future: ma dovrebbe essere chiaro a questo punto che la posta in gioco è la sicurezza delle stesse prestazioni. Si tratta insomma non di salvare l’Inpgi, ma di salvare le nostre pensioni. Nel 2003, quando (con oneri per le casse pubbliche) fu assorbito nell’Inps l’istituto dei dirigenti (Inpdai) venne deciso di calcolare le pensioni con il principio del pro rata: le vecchie regole fino al dicembre 2002, quelle degli altri lavoratori dipendenti dall’anno successivo in poi. Per le prestazioni non pensionistiche restarono in vigore le norme Inpdai. Forse nemmeno un obiettivo del genere può essere ritenuto alla nostra portata in questa fase, ma è il caso di iniziare a ragionare seriamente e senza pregiudizi.