Ho appena letto la documentata diffida con relativo accesso agli atti (la trovate in calce) che quattro giornalisti idonei alle ultime selezioni Rai ancora non assunti hanno inviato alla Rai e all’Anac sul caso della collega italo-israeliana Imann Sabbah e ancora non riesco a concepire come sia potuto accadere che una persona non iscritta all’Ordine dei Giornalisti Professionisti possa essere stata assunta in Rai. Scorrendo l’esposto scritto dal giuslavorista Enzo Iacovino che chiede il licenziamento della collega perché mancherebbero i presupposti per l’assunzione le domande fioccano. È una richiesta troppo dura? Difficile dare una risposta. Certo le norme sono chiarissime ma chiedere il licenziamento di una giornalista che ha dimostrato negli anni di saper fare il suo mestiere non è certo una buona soluzione. Sarà la magistratura nelle sue articolazioni a far pendere l’ago della bilancia in un verso piuttosto che nell’altro.
Nel frattempo qualcuno si sta preoccupando di quanto avvenuto? No. Silenzio. Tace l’Usigrai, Tace l’Ordine dei Giornalisti. Tace l’Azienda. Ma resta la domanda semplice e scandalosa: come è stato possibile?
In attesa di una riposta che non può non implicare delle responsabilità precise, il “caso Sabbah” ci racconta una storia importante, ci descrive il fondo opaco di questa azienda, il suo sottosuolo fatto di distrazioni delinquenziali, di favoritismi, di sgrammaticature contrattuali. E che arriva a prendere in considerazione anche la riassunzione di una giornalista, Maria Giovanna Maglie, allontanata per aver gestito i fondi della Rai di New York in maniera assai discutibile. Un’azienda fuori controllo dove l’impunità è di casa. Ecco la lezione che ci viene impartita dal caso Sabbah. Che poi non è un caso ma una sindrome: quanti altri casi Sabbah ci sono? Quanto è profondo questo sottosuolo, chi lo gestisce? Per ogni Sabbah c’è un prezzo da pagare in termini di discriminazioni, di iniquità, di ingiustizie. Ecco, io mi aspetto che almeno uno dei soggetti in campo, quello che mi appartiene di più, quello che ho votato e a cui sono iscritto, faccia qualcosa. Mi aspetto che il sindacato dei giornalisti faccia qualcosa. Noi tutti dobbiamo fare qualcosa. Una, molto semplice, possiamo iniziare a farla da subito: quella di tornare a discutere e –perché no?- a votare contro. Affrontando questioni come quella di Imann Sabah o come quelle dei giornalisti che hanno superato le selezioni e ancora non sono stati assunti, senza voltarsi dall’altra parte per parlarne a bassa voce. Cercando di ricostruire un sindacato che si interessi a quel Mondo di sotto fatto di bravi giornalisti che non vedono mai la luce di una carriera lineare e trasparente, contrattualizzati come registi (l’ennesimo paradosso in un’azienda che ha una corrispondente da Parigi che invece non è iscritta all’Albo) o beffati anche in quei concorsi interni chiamati job-posting mentre tutt’altra cura e attenzione viene riservata al Mondo di sopra fatto da dirigenti a vita che non tornano mai alla casella di partenza come prevede il contratto. Assuefatti a questo senso di impunità che ci circonda, quasi ci dimentichiamo che tutto questo accade in un’azienda pubblica che si alimenta di soldi pubblici. Per fortuna ci sono i giudici che ogni tanto ce lo ricordano.
Alessandro Gaeta, delegato Congresso Stampa Romana