176 giornalisti in prigione, quasi 6.000 licenziati, 191 media chiusi (i loro archivi digitali in molti casi cancellati). In soli 2 anni e mezzo, dopo il golpe fallito contro Erdogan, è questo il bilancio che colpisce indiscriminatamente quotidiani, riviste, mensili, televisioni, radio, siti online, agenzie di stampa. Numeri impressionanti, che fanno oggi della Turchia un caso unico nel mondo. Forse il più avvicinabile al Messico, dove i reporter vengono addirittura eliminati fisicamente. Un caso che, stando alle stime rilasciate negli ultimi anni da Reporter sans frontieres, sopravanza come fenomeno persino i numeri eclatanti di Iran e Cina.
A questo si aggiunge la militanza di centinaia di “colleghi” filo governativi, la presenza di tanti costretti ad autocensurarsi, e la testimonianza di pochissimi giornalisti occidentali (il corrispondente di Repubblica fra questi). Con difficoltà formidabili nel riuscire a ottenere visti di residenza e permessi professionali, in diversi casi negati e proposti dalle autorità di Ankara dietro il meschino e inaccettabile ricatto di assoggettarsi alla linea ufficiale suggerita. Al punto che persino i maggiori gruppi editoriali internazionali o rinunciano a coprire stabilmente la Turchia, oppure si affidano a reporter free lance e cronisti locali, o infine lo fanno mandando sul posto inviati destinati a rimanere pochi giorni e quindi a rientrare in sede una volta terminato il servizio richiesto.
Solo in apparenza il caso di Jamal Khashoggi, l’editorialista saudita del Washington Post, critico con il regime del principe ereditario Mohammed bin Salman, e ucciso nel proprio consolato a Istanbul il 2 ottobre 2018, ha rimescolato le carte e dato fiato alla libertà di movimento dei giornalisti in Turchia.
Da politico consumato e abilissimo quale è, Recep Tayyip Erdogan ha finora cavalcato la vicenda con maestria, ergendosi addirittura a paladino della libera stampa (da che pulpito), e puntando il dito contro Riad e la sua dirigenza perché rivelino (e fin qui, giustamente) i mandanti del commando di 15 persone arrivate nella metropoli sul Bosforo con l’obiettivo di eliminare il giornalista sgradito e farne sparire persino il corpo.
Con Riad all’angolo, Erdogan si è ora piazzato al centro del ring, calibrando gli attacchi e incitando gli spettatori dalla sua parte. Ancora una volta il leader turco, con la spregiudicatezza che gli è nota, è riuscito a capitalizzare un evento internazionale (lo aveva già fatto con la decisione americana di spostare l’ambasciata a Gerusalemme, ergendosi a rappresentante del mondo musulmano e arrivando fino al Papa) e a gestirlo politicamente. Fino a adesso, occorre dirlo, in maniera impeccabile. Accusando i colpevoli, cercando di smascherarli, innalzandosi a difensore della libertà di critica, chiamando l’Occidente a collaborare. In ultimo, mostrando pietà nei confronti della famiglia dell’ucciso.
Si assiste così, nelle ultime settimane in Turchia, a fenomeni mai registrati prima nel panorama della stampa. Piovono ai giornalisti, pure ai corrispondenti stranieri, dettagli continui e inediti sul caso Khashoggi, e direttamente dal governo che li fornisce. “Abbiamo dato le registrazioni – declama il capo dello Stato alle tv nazionali collegate in diretta unica – le abbiamo date all’Arabia Saudita, le abbiamo date a Washington, ai tedeschi, ai francesi, agli inglesi. Sanno tutto da quando hanno ascoltato le conversazioni e tutto il resto”. Eppure, grattare sotto la crosta di un potere mediatico che assegna oltre il 95 per cento dell’informazione al cerchio filo governativo, può costare caro ed è impresa quasi impossibile, oltre che pericolosa.
Ma come è avvenuta in Turchia la demolizione dei giornali? Quel progressivo svuotamento e annullamento del sistema dell’informazione, che ha portato la quasi totalità del sistema mediatico sotto l’ombrello del governo, e fare riferimento allo Stato e ad aziende vicine al partito Giustizia e sviluppo fondato dal presidente della Repubblica? E cosa può insegnarci?
L’epidemia che da qualche anno sta passando nel mondo dell’informazione, con esempi evidenti dall’America all’Italia, vede oggi la Turchia al centro. Ad Ankara il punto di rottura è stato nel 2011. Nel momento in cui la lotta dello Stato turco contro il Pkk curdo (il Partito dei lavoratori del Kurdistan, il movimento fondato da Abdullah Ocalan) è ripresa dopo il fallimento di un possibile negoziato, Erdogan allora premier ha riunito i maggiori direttori dei giornali e le loro proprietà editoriali per dare la sua linea informativa. Nei Paesi democratici i media avrebbero rifiutato un simile incontro. Ad Ankara invece gli editori furono molto remissivi e ci fu addirittura chi disse a Erdogan: “Che cosa possiamo fare per te?”. Il Pkk è considerato ufficialmente un’organizzazione terroristica anche da Stati Uniti e Unione Europea. Ma la differenza fondamentale dei principi dell’informazione è evidente: se si intervista Ocalan o un qualsiasi altro leader del gruppo (altrove considerato ribelle o guerrigliero) in Turchia si è passibili dell’accusa di “legami con il terrorismo”. Voglio fare un esempio italiano: se al tempo delle Brigate Rosse un giornalista fosse riuscito a intervistare Renato Curcio, il suo sarebbe stato considerato uno scoop, un colpo clamoroso. In Turchia oggi verrebbe messo in prigione, perché il solo dare voce a un capo terrorista è ritenuto un reato penale.
Quando dunque in quell’anno non poche città curde nel Sud est del Paese furono spianate dall’esercito turco, la maggioranza dei media ignorò la notizia, così come vennero nascoste le centinaia di storie e di morti collegate a quell’evento. E gli organi di stampa locali provarono la loro remissività nei confronti dell’uomo forte. La replica, tragica, avvenne due anni dopo, nei venti giorni della protesta di Gezi Park: mentre Cnn e Bbc mostravano le immagini della repressione in tutte le piazze turche, le televisioni locali mandavano in circuito documentari sui delfini. Tre anni più tardi, un golpe militare fallì per la prima volta nella storia della Turchia nel momento in cui il leader attaccato, collegatosi dal suo nascondiglio con una tv, con un colpo di reni straordinario invitò la popolazione a resistere, i muezzin a chiamare dalle moschee la gente a scendere in strada per difendersi dai soldati ribelli, e le sorti del putsch finirono per ribaltarsi a suo favore.
E’ dunque evidente come Erdogan sappia usare i media. Ma anche come i media non sappiano difendersi dal potere. Difatti sono usciti asserviti pure durante le ultime elezioni del 2018 che lo hanno visto rieletto alla massima carica dello Stato. L’Europa e il mondo per fortuna non sono a livello turco, anche se gli esempi, alcuni già citati e altri ancora, dall’Ungheria al Brasile, non mancano. L’Italia, che della Turchia è un Paese da sempre amico, può trarre una lezione importante. Perché non c’è mai stata, in Turchia, unità fra i media, divisi persino sulla difesa della propria libertà dai politici e dai potentati economici. Oggi perciò, tutti loro, e anche i giornalisti, i direttori, i grandi editorialisti laici fuggiti per la maggior parte all’estero e in esilio (in Canada, negli Usa, in Germania, Belgio, Francia, Olanda, Svezia, Svizzera, Grecia, pure in Italia) ne pagano conseguenze amarissime. Inoltre, in Turchia la percentuale degli iscritti ai sindacati non è superiore al 4 per cento. Un altro numero da brivido. Con il risultato che gli arresti avvenuti con la repressione che prosegue tuttora dal luglio del 2016, e la maggioranza dei licenziamenti – gli uni e gli altri molto spesso arbitrari – non hanno potuto nemmeno trovare una parvenza di difesa.
La responsabilità dei giornalisti turchi è stata in buona parte questa, facilitata dall’astuzia di un leader pragmatico e senza scrupoli. Senza solidarietà fra loro, i media hanno conosciuto un asservimento generale. Il caso turco, per fortuna, è molto lontano da quello italiano. Ma l’orribile esperienza che la stampa di Istanbul sta vivendo insegna quanto sia preziosa l’unità nella difesa dei valori della libertà. Perché questa, come sappiamo, è una professione sempre sotto minaccia, a qualsiasi latitudine. E, a prescindere da quale sia l’idea politica, il nostro mestiere – che si parli di fatti italiani o di cose internazionali – è quello di dare la più ampia copertura, nella maniera più equilibrata possibile, a quello che accade e che siamo chiamati ogni giorno a descrivere e raccontare.