La giusta distanza dell’inviato di guerra

Da Gaza all’Ucraina, quanto è difficile raccontare la guerra se non puoi andare a vedere o se puoi farlo solo assieme ai soldati

Di Angelo Figorilli – Pubblicato da La voce di New York

C’è una parola che definisce un modo di fare giornalismo in guerra. È inglese: “embedded”, che letteralmente significa “incorporato“. In altre parole il reporter decide di seguire in azione una o più unità di un esercito in campo accettando le condizioni che vengono preventivamente dettate dai militari. Ragioni di sicurezza in primo luogo, ma anche scelte da fare o non fare nel racconto, luoghi da non riprendere, storie da evitare, altre su cui soffermarsi.

Più in generale, si tratta di fare un patto con chi ti concede di seguirli in operazioni più o meno pericolose e complicate. Loro ti caricano e tu ti attieni ai loro ordini. Il patto ovviamente comporta che ognuno cerca di trarre vantaggio dalla situazione, loro ti portano dove credono sia meglio per quello che vogliono farti vedere e sentire, tu che fai la tara alle cose che ti propongono e mantieni se riesci la giusta distanza tra quello che ti fanno vedere e quello che racconterai.

Ora, tutto questo non è facile, ogni buon inviato lo sa, tanto è vero che molti reporter decidono di rinunciare a queste opportunità. Magari resti un passo indietro, ma non ti affidi ai consigli e agli obblighi di chi ti offre storie che obiettivamente contengono una dose non bassa di propaganda. Puoi decidere sia l’una che l’altra cosa.

Quello che un buon reporter non dovrebbe mai fare è dimenticare di spiegare ai suoi lettori o spettatori che, se sta andando lì, lo sta facendo in quella determinata condizione di “embedded“, cioè di “incorporato”, e che quindi il suo racconto dovrà essere ascoltato anche in relazione a questa consapevolezza.

Da quasi due anni siamo immersi nei racconti di due guerre. Nuove generazioni di reporter si sono formate in queste situazioni drammatiche. In una, quella di Gaza, il tema è diventato subito oggetto di discussioni e frustrazioni tra i giornalisti nel senso della impossibilità materiale di poter seguire gli eventi da vicino. L’esercito israeliano, salvo rarissime e blindatissime missioni “embedded“, ha di fatto impedito ai giornalisti tutti, anche ai suoi, di entrare a Gaza per vedere e raccontare, con le conseguenze che tutti sappiamo.

Da un lato, la martellante narrazione dei comunicati dell’IDF (l’esercito di Israele), che ribadiscono ogni giorno la loro versione dei fatti – non ci sono civili uccisi ma solo basi terroristiche attaccate e distrutte, scusate la semplificazione, ma ci capiamo; dall’altra, le stime del ministero della Salute di Gaza (bisogna sempre aggiungere controllato da Hamas, altrimenti scatta la polemica), che aggiornano le cifre dei palestinesi morti in questa guerra, ormai quarantamila con nomi e cognomi e chissà quanti sotto le macerie ancora da trovare. In mezzo, le eroiche testimonianze dei reporter della Striscia, che hanno raccontato quello che vedevano finché hanno potuto, poi o sono scappati o peggio sono stati uccisi anche loro.

Per questo a Gaza il dilemma dell’inviato “embedded“ (che faccio vado o no? Accetto le condizioni e provo comunque ricavarne un racconto oppure rinuncio?) non c’è mai stato perché Israele non ha voluto rischiare lo sguardo nemmeno di un giornalista sia pure “incorporato” alle sue condizioni.

Diversa è la storia della guerra in Ucraina. Una guerra novecentesca si potrebbe dire, con trincee, eserciti e fronti, sia pure aggiornata alla tecnologia contemporanea con satelliti, droni e intelligenza artificiale. In questo caso, almeno sul fronte ucraino -a raccontare quello russo abbiamo ormai rinunciato da tempo e ora è troppo tardi – la possibilità di andare “embedded“ c’è. Anzi, mi pare che ci sia una certa voglia dell’esercito di Kiev di portare i giornalisti a vedere soprattutto le azioni di avanzata e di riconquista, fino addirittura in queste settimane, di sconfinamento nel territorio russo per diffondere legittimamente da loro punto di vista l’idea che la guerra e la pace si fanno sul campo.

Così abbiamo visto di recente reporter andare “incorporati“ oltre confine, farsi raccontare come avevano colto di sorpresa il nemico, fino a spingersi a raccogliere testimonianze di civili su come fossero diversi i soldati ucraini, che pure in quel momento, sia pure per ragioni tattiche, di fatto erano invasori, attenti a non vessare gli abitanti dei villaggi conquistati. “Siamo qui per far sentire ai russi quello che abbiamo patito noi”, tuonava da lontano un ministro di Kiev. Ma sul campo ecco al lavoro soldati tutto sommato buoni, forti e perfino gentili con la popolazione russa al di là del confine.

Ora, ripeto, ogni inviato sa a cosa va incontro scegliendo di andare “assieme” ai soldati e ogni scelta è legittima; a patto, però, di trasmettere questa sua condizione di “incorporato” almeno tra le righe del resoconto, mantenendo la giusta distanza dal suo accompagnatore e magari accennando appena possibile che la guerra comunque produce dolore sempre, anche quando si sta dalla parte dei buoni.

Ricordo che la generazione precedente di inviati, quella dell’Iraq e dell’Afghanistan, aveva ben chiaro il tema e anche allora si divideva tra chi seguiva gli americani e gli alpini pur di ricavare spunti e testimonianze e chi in splendida solitudine, come Ettore Mo, spariva per settimane per andare a Mazar-i-Sharif a intervistare un signore della guerra o un capo dei Mujaheddin o i contadini costretti a coltivare oppio per sopravvivere.

Ma tutti, o quasi, ripetevano appena possibile – e molti, ben inteso, lo fanno anche oggi – che la guerra è brutta e cattiva chiunque la combatta, anche per le migliori ragioni, e se c’è una parte da difendere e raccontare è quella della gente comune che soffre, sempre e comunque, a prescindere dalla nazionalità dei soldati e dei cannoni. Ripeterlo anche oggi non fa mai male, anzi.

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